Formidabili quegli anni
Qualche rimpianto calcistico l’avrei. Forse è solo la fanciullezza perduta, che inseguo, eppure penso che mai come nella seconda metà degli Anni ’70 gli incontri casalinghi del Gualdo calcio rappresentassero un fenomeno di costume per la nostra città.
Perché non era troppo presto - sembravamo già una cittadina moderna, ai tempi - e non era neanche troppo multimediaticamente tardi: la domenica pomeriggio, se non andavi al cinema, c’era solo la partita. Nient’altro. Riga. Poi era già lunedì.
A parte la messa delle undici e trenta a San Benedetto, il partitone al Carlo Angelo Luzi, ossia al vecchio campo sportivo, era un’occasione per vedere tutta la città. Anzi, l’unica, perché sugli spalti c’erano pure comunisti, apostati e miscredenti.
Intendiamoci, a me la formazione biancorossa in campo piaceva da matti. In porta Bocci o Restani. Restani era un caso a parte, perché il portierone, classe 1947, nel 1973-1974 aveva giocato col Taranto in serie B, facendo parte dell’album Panini da me religiosamente collezionato. Quindi Restani era sacro, in qualità di prima figurina della mia vita che si transustanziava in un essere umano in carne e ossa.
Eppoi sulla destra, a terzino di linea, Cambiotti detto “Cerchione”, grosso e sempre ansimante ma efficace, aggraziato come Rocky sui tacchi a spillo, coadiuvato dal grandissimo e sfortunato Fiorentini, con davanti il moro ed elegante Meccoli. Quindi a stopper l’alto e rocciosissimo Marinelli, specialista dei colpi di testa, cattivo come il veleno e detto “Haller”, appunto per la chioma biondo-nibelungica tale e quale a quella dello straniero di Juve e Bologna.
Davanti il Gualdo faceva sognare. C’era Bianchini Umberto - quella volta i cognomi si dicevano carabinierescamente prima dei nomi - dagli inserimenti offensivi improvvisi e devastanti, da non confondere con il leggendario Bianchini Fausto detto “Messico”. Talento vero, costui. Attaccante puro, fantasioso e meritevole di miglior destino, giacché finì a inizio Anni ’80 venduto a una squadretta verso Gubbio per un ingaggio stagionale netto quantificato in un maiale capato. Poi c’erano Argentina, mezzala intelligente, e il barbuto Trinei, centravanti classico.
E quindi l’arma segreta, all’inizio sempre in panca. Parlo del 16enne Paoletti Roberto detto “Agricoltura”, forse il più grande genio inespresso in tutta la storia della Gualdo biancorossa. Magro, filiforme, quasi invisibile, entrava e segnava, punto. Rapinoso, felpato, pieno di classe. Spietato. Un angelo nero. Specie per i portieri avversari.
Infine, per me sopra tutti c’era lui, il libero: Centini. Aveva quasi quarant’anni ed era pelato. Era il nostro capitano. Ormai lento, giocava di posizione e intuito, dietro l’ultima linea di difesa. Una goduria, a vederlo. Guastatore tattico divino. Marcatore intelligente, incontrista sopraffino, non andava mai oltre il centrocampo. Quand’eravamo in attacco, passava il tempo a chiacchierare col nostro portiere.
Certo, sembravano partite belle e brutte, quelle del Gualdo di fine Anni ’70, ma non c’erano problemi. Se emozionavano, si guardavano volentieri, sennò bastava girarsi a contemplare il più grande spettacolo dopo il big bang: il pubblico gualdese.
Il numero uno assoluto era lui, il parroco: don Carlo Cancellotti. Sereno, galantomisticamente pastorale, bruciava per il calcio. Sedeva a centro tribuna, nel cuore della tifoseria. Di fronte a un’azione dubbia o un fallo a noi non fischiato, era il primo ad alzarsi in piedi esclamando con prelatizia e distaccata classe un: «Su, andiamo, perbacco!». Era una specie di segnale di guerra.
Dalla parte dei comunisti e della selezione degli avventori del bar di Moschino o della barbieria di Armandino, i fulcri del tifo gualdese, s’alzavano urla selvagge e belluine, spesso accompagnate da bestemmioni monumentali, uno diverso dall’altro, semplicemente michelangioleschi, che il monsignore ignorava con la bonaria magnanimità del poliziotto di pattuglia che ti salva dall’aver bruciato una doppia linea in fase di sorpasso.
In alto, sulla destra, sedevano i commercianti. Il sor Abramo Carlotti, col fiocco, perché i commercianti a inizio 900 portavano un nastro blu al posto della cravatta e lui ancora lo aveva, Gigino Fabbrizi, che taceva sempre, e mio padre Italo, che non stava zitto mai. Era capace di scaricare un camion di grano mettendo in schiena sacchi da un quintale e mezzo senza fare una goccia di sudore, ma per il Gualdo Calcio perdeva due chili a partita. Diventava una jena. Rosso, incazzato, furibondo anche davanti ad arbitraggi irreprensibili. Accanto a lui e me, il veterinario Pio Carlotti. Giravano leggende antiche e strane, su questo sant’uomo. Pare che in gioventù, di fronte a un incontro finito con rapina aribtrale, avesse inseguito la terna giudicante, sgattaiolata in treno, fino alla stazione di Foligno, correndo in Lambretta avvinghiato al “Sinalco” - altro personaggio mitologico del tempo, metà barbiere e metà cacciatore - salvo rendere giustizia a Gualdo sul marciapiede della stazione folignate, colpendo in testa l’arbitro con un’ombrella che al contatto con la dura zucca dell'uomo nero vide sbriciolarsi il manico.
I comunisti, manco a dirlo, si piazzavano a sinistra. Ce ne erano di due tipi: quelli taciturni e quelli no. Tra i primi, fantastico era Pinacoli Augusto detto Arcibaldo. Quando tutti gridavano “Forza Gualdo!”, lui se ne stava zitto, con lo sguardo triste. Mentre tutti tacevano, prendeva fiato e da solo, sempre da solo, con la sua inconfondibile voce rauca buttava là un “Forza Gualdo!” graffiante, maschio e un pizzico poetico.
Tra i rossi loquaci, spiccava Giambattista Megni, informatissimo sui comportamenti sessuali della moglie dell’arbitro designato, che descriveva a voce stentorea non omettendo posizioni preferite e orari di visita dell’idraulico di turno. Io ’sta leggenda che la moglie dell’arbitro se la fa l’idraulico non l’ho mai creduta, perché alle partite del Gualdo l’idraulico locale, ‘Ngiolo d’Arcadio, c’era sempre e quindi aveva un alibi di ferro.
E poi c’era la “Bella de Nonna”, la nostra primadonna. Ricordo che una volta, con l’Elettrocarbonium, “Messico” sbagliò un gol già fatto e la nostra torcida gli si rivoltò contro, inviperita. Così Bianchini si girò verso la tribuna e, umiliato e offeso, si toccò il pacco in segno di scherno.
Gelo nello stadio, come in uno spaghetti western.
S’alza la “Bella de Nonna” e risponde impettita: «Camina, “Messico”, di qui hae da fa’i golle: in quel modo facce da la ragazza!». La tribuna gremita esultò manco avesse assistito a una rete in forbice.
Ma a colpirmi provvedeva anche altro. Erano una squadra e una Gualdo talmente amabili, che ad amarle forse più di tutti erano due non gualdesi, capaci di vivere tutta la partita aggrappati alle reti.
Ghiani, detto “Il Sardo” perché era sardo, tifava biancorosso con trasporto meraviglioso, schiantando a terra la radiolina nei momenti di delusione e mostrandosi abilissimo nella mira per gli sputi al segnalinee in casi di fuorigioco non segnalato. Quanto al nordico Gastadelli, detto il “Cioccetto”, per l’emozione non riusciva a stare fermo, circumnavigando le reti di contenzione per tutto l’incontro, assommando a fine partita percorrenze da marciatore etiope.
Di giornalisti pochi ma buoni: Giancarlo Franchi portava l’agenda in pelle color ruggine e prendeva appunti per il pezzo che avrebbe scritto su “Il Messaggero”, mentre sul terrapieno soprastante gli spogliatoi la Fiat 128 rosso acida di Peppe Orazi ospitava transistor e microfoni per i rari collegamenti radio. Tutto qui.
Be’ tutto questo tanto durò e fu bello assai. Poi una domenica, l’ultima giornata del 1976-1977, fui punto da un segnale inatteso come uno spillo avvelenato. Nella pausa tra il primo e il secondo tempo di Gualdo-Clitunno, che perdemmo 1-2, qualcuno degli adulti, non ricordo chi, mi disse: «Per Centini è l’ultima partita: smette».
Mi sentii morire. Bimbo e tonto, pensavo che i calciatori fossero eterni, come gli eroi dei fumetti e del cinema, stile Tex e 007. Il mio patrimonio emozionale-affettivo non contemplava la caducità dei biancorossi e dei loro sostenitori. Passai tutto il secondo tempo di Gualdo-Clitunno a guardare Centini con più attenzione e con lui tutti quelli che erano in campo e in tribuna. Capii che nessuno era lì per sempre. In futuro li avrei ricercati. Forse rimpianti.
Mi sforzai di memorizzarli, perché un giorno, solo ripensandoli, chissà, magari li avrei fatti per un attimo ritornare e così quella Gualdo, così gualdese e bellissima, anche solo per un attimo, avrebbe giocato a sorpresa una partita ancora.
Non so se con queste righe la faccenda è andata proprio così, ma di una cosa sono proprio sicuro: cari grandi e piccoli eroi biancorossi di fine Anni ’70, io non vi ho dimenticati.