Partita di Mezzanotte, I love you
Se c'è una cosa che mi dispiace, è che non esista più la partita di calcio dei Giochi de le Porte.
Era l'unico momento di vita reale, verace, violenta e primordiale di tutta la manifestazione e soprattutto rappresentava l'unico episodio seriale in cui la città di Gualdo nella sua ultramillenaria storia giocava unita e non divisa, vincente e mai sconfitta.
Gli altri giorni potevano fregarci banca, acqua, pretura e ospedale, ma quella notte il pallone sarebbe restato nostro.
In discoteca prendevamo botte ovunque, perché troppo diversi da quelli di Gubbio - ché se dai 'no schiaffo a un eugubino quelli arrivano in ventisette a dartene cinquantaquattro - e financo meno solidali dei campesinos di Sigillo, i quali negli Anni '80, ai primi spintoni, poche storie, menavano per primi e come fabbri.
Okay, noi a Gualdo avevamo la partita.
Quando nacque io c'ero e ne vado orgoglioso, ben più di qualsiasi cazzata retribuita abbia scritto in vita mia.
In piazza impazzavano i Giochi, correvano gli Anni '80 e correvamo anche noialtri senza un vero perché, quando, quella volta, quasi a giorno, ci contammo ed eravamo una ventina.
Sporchi, bevuti, non più buoni né necessariamente cattivi e con la voglia di non piantarla lì, perché a letto e sobri, sotto i Giochi, ci vanno solo vili e schiavi.
Comparve un pallone, non saprei dire né di chi né perché, due calci a miccio e poi Cappottella disse solenne "Fermi, fermi, facemo le squadre".
Lui e Melone si spartirono a pari e dispari il drappello dei survivor, che presto si divise in due improbabili e malconce legioni.
"L'entrata, ci vuole l'entrata" - aggiunse Cappottella, come uno stregone che non sa d'es-serlo, mosso in trance dalla mano invisibile d'un dio laico che detta rituali incogniti ma pronti a cristallizzarsi in liturgia.
Poche pippe: io e la mia squadra ci trovammo nascosti dentro il vicolo de Bruno de Lonza, gli altri in quello di Zoppis e al segnale entrammo in campo, anzi, in piazza, in sfilata preagonistica, quasi fossimo stati i New York Cosmos di Pelé e Beckenbauer.
Palla al centro, un fischio alla pecoraia e senza saperlo, eravamo nella storia.
E cosa strana, quando partirono i primi calci, le botte e i vulticoni, invece che incazzarci, ridevamo.
Come scemi.
Quasi a incitare le botte a detrimento dei dribbling.
Il resto sarebbe negli anni sociologicamente, antropologicamente e strutturalmente cresciuto da sé, con la stratificazione spontanea dei rituali tribali studiati da Levy Strauss.
Una partita di calcio anarchico senza porte né arbitri né gol e priva di regole, dominata dal solo istinto bipolare di sopraffazione e sopravvivenza, tangenti e intrecciate come yin e yang, giorno e notte, bene e male, in un confondersi doloroso, rutilante ed esplosivo.
Era il Fight Club de nuantre.
Non dovevi segnare, ma picchiare e non essere picchiato.
Darle e non prenderle.
La domenica notte in piazza Martiri - un nome che diveniva, oltre che rispettosamente evocativo, financo cronachisticamente didascalico -, a Giochi finiti e Bastola bruciata, con la scusa d'un pallone ci si metteva alla prova. Si vedeva quanto s'era disposti a rischiare, soffrire e infliggere.
Metà Gualdo, perlopiù femmine, bambini, vecchi e pacifisti, sedeva in tribuna a gustarsi l'altra metà che si spaccava la faccia, con la scusa d'inseguire in trecento un pallone. Tanto da finire, come episodio d'un drammatico e spettacolare Mondo Movie di morti sfiorate, direttamente citati su Real Tv di Italia 1.
Bello, brutto, giusto, sbagliato, esecrabile, entusiasmante? Non lo so.
So però che la faccenda era il portato e il risultato, quasi il distillato, d'un processo antico della civiltà di provincia, laddove la serena e pigra tranquillità quotidiana nascondeva e nasconde sotto il pelo dell'acqua cheta gorgoglii feroci, aggressività inespresse e una violenza antagonistica selettiva e quotidiana, un po' come nelle Novelle della Pescara di Gabriele D'Annunzio.
Prendi i bar del centro. A fine secolo scorso non era com'adesso, che son vuoti e quasi morti.
No, al tempo si riempivano, rigurgitavano di gente di tutte le età, risme e censi.
Si giocava a carte e si chiacchierava, ma non era un fine, quello, no, era solo strumento. Il gioco vero era mettere ciascuno al suo posto. Furbi, forti, cattivi, belli, brutti, intelligenti, deboli e simpatici. Se eri almeno due di questi aggettivi, ti salvavi, se ne eri uno solo, cioè debole, vivevi l'inferno.
Dovevi cavartela da te, non c'era il politically correct a smorzare e zavorrare il bullo e ad alleggerire la vittima di turno. Non che fosse giusto, però imparavi a campare.
Perché la provincia - e in ultima analisi la vita - è e resta intimamente violenta, in modo diverso ma non meno abrasivo della metropoli e soprattutto con dinamiche più scoperte e nette di quanto le anime belle vogliano farci credere.
E a tutto ciò la partita stava come l'olimpiade sta a una semplice stagione d'atletica.
Lì non si scherzava.
Ti sprovavi, per scherzo e per sul serio.
Ti giocavi tutto. Cosa, non saprei.
Già, Norman Mailer dice che la civiltà del tardo Novecento, ormai senza più guerre e ideali, cercava, si creava la sua Prova, per capirsi meglio. Per noi, boccia della Gualdo di fine '900, la partita era la Prova. Intrecciavi alleanze e strecciavi inimicizie creandone altre.
Regolavi conti.
Sissignore, come al carnevale di Rio aspetti l'entrata al sambodromo per punire chi t'ha piazzato uno sgarbo, in partita pugnalavi a zampate sulle coste qualcuno che te l'aveva fatta piccola o grossa, poco o tanto prima.
Ricordo che un'estate di mill'anni fa, da post-munello, giravo per piazza con una, debitamente minigonnata, e, passando davanti a due che erano più ragazzi di me, il meno furbo le fischiò. Questa mi guarda e mi fa: "Fai finta di niente?". E io "Sì. Niente fretta, tanto mese prossimo c'è la partita. Lo rivedo lì".
Funzionava così, punto.
Ecco un altro aspetto della partita. La frastagliatezza complessa delle divisioni rancorose che fondendosi diventava unità, così come per i neoliberisti economici la mano invisibile del mercato aggiusta e armonizza le spinte egoistiche individuali in un sistema che funziona e s'equilibra omogeineizzandosi spontaneamente.
Dai che scherzo, però un po' era così davvero.
Insomma, a un certo punto, poco prima delle una della notte di domenica, a piazza ancora piena per tre quarti, qualcuno tirava in aria un pallone e lo spettacolo cominciava.
La sfera di gomma gonfiata un semplice pretesto, il fine le botte. Ciascuno col suo stile.
A me piaceva.
Da ragazzo, quando giocavo a difesa coi giovanissimi del Gualdo e senza guardalinee, sapevo che potevo menare solo se mettevo l'avversario in mezzo all'arbitro e al sole: in quell'eclissi di morale scheggiavo caviglie senza pietà ed era divertente. Invece in piazza, in quelle notti di luce artificiale, non c'erano astri caldi e uomini neri col fischietto, ma solo bersagli compiacenti, me compreso. Fantastico.
Non chiedetemi ricordi. Vi deluderei.
Più di metà di partite a Martiri Square le ho giocate da briaco, svegliandomi il giorno dopo ammorato, con gli stinchi insanguinati ma felice. Mi interessava solo salvarmi il naso, perché regolare, il resto fanculo.
Un po' di cose però mi sono rimaste impresse.
L'arroganza dei forestieri, per esempio.
Quel loro partecipare intruso, che andava punito. Ogni anno ce n'era sempre uno grosso, tra loro, che provava a prendere la palla con le mani e a farsi una vasca sana, dalla chiesa gotica a quella romanica o viceversa, e allora non gli tornava.
Finché era in movimento, bisognava colpirlo a calci, meglio sopra la cintura, quando si fermava, placcato, si cominciava a cazzotti, alla do cojo cojo, fino a che non lasciava la palla e anche un po' dopo.
Cristo, che belli i forestieri grossi, quando dopo un paio di passate diventavano più umani...
Poi però c'erano pure momenti memorabili e anche di più.
Tipo quella notte in cui il pallone finì sopra il terrzazzo della Democrazia Cristiana, sotto il quale stava parcheggiato a gradino il pulmino dei caramba, che facevano finta di niente.
E mo'? Finita così? Quelli della Benemerita ci guardavano divertiti. Quando uno di noi salì sul tetto del mezzo, pestando sulle capocce degli sbirri per approdare sul balcone e riprendere la palla salvando l'incontro, uno sgomento passivo si dipinse sul volto dei militi e la piazza esplose in un boato gioioso e belluino.
Avevamo vinto noi.
Eppoi le sfide personali.
Anche casuali.
Un anno si confrontarono in una sorta di "Duel" infinito, stile Ridley Scott, il compianto Fabrizietto Acciari e Graziano Marinelli, tanto che a un certo punto la tenzone calcistica divenne un incontro di sumo riservato a loro due, i quali, dopo una serie emozionante di vicendevoli giravolte, si schiantarono a terra.
Fabrizio, steso, mi guardò con aria triste e disse: "me sa che me so rotto una gamba".
Per come era messo l'arto, pareva una prognosi ottimistica.
Guardai Gian Luca Pimpinelli e gli dissi: "Hai casa sotto piazza, chiama l'ambulanza".
Già, la Croce Rossa.
Non so per quale scherzo del destino, due cose restano certe:
1) finire ricoverati per una ferita nella partita di mezzanotte era un grande onore e
2) di turno in lettiga per anni c'era Ciro Cappelli, un omo grande e grosso, infermiere veterano del pronto soccorso del nosocomio Calai, che una notte, all'ennesimo viaggio fatto per ospedalizzare giocatori disarticolati, pronunciò una frase destinata a entrare nella leggenda: "Mo' ete rotto i cojoni: questo è l'ultimo viaggio. Chi è fori è fori, chi è dentro è dentro: io 'n c'arvengo più a piavve!"
Eppoi si verificavano atti d'eroismo individuale, destinati a entrare nell'epica della città.
Uno su tutti? Quando Enrico Pedana, appena uscito dai banchi del consiglio comunale, con tanto di giacca, cravatta, completo nero e camicia immacolata, si gettò nella mischia, brandendo una Multifilter e un bicchiere di Montenegro.
L'ex assessore socialista continuò per ore, con Carciofino, fiero titolare del Bar Appennino, che usciva di tanto in tanto a rabboccare il bicchiere del corroborante amaro, come un tifoso riempe la borraccia di Fausto Coppi.
Quanto a me, la visione del Pedana non meno briaco del sottoscritto, m'affascinava.
Ero suo giurato avversario politico, al tempo, ma quella notte mi misi di punta a proteggerlo da qualsiasi insidia, tanto mi stava piacendo la sua improvvisa follia, così simile alla mia.
Perché poi alla fin fine ha ragione Huizinga nel suo "Homo Ludens": quand'entri nel cerchio magico del gioco la vita neanche esiste più, impera una nuova realtà con dinamiche diverse e spesso opposte: nulla del vecchio e del solito vive ancora e tutto del nuovo momentaneamente impera.
Il socialista Pedana era diventato Enrico il Grande.
E tale rimase in saecula saeculorum, amen.
A dirla tutta, a me la partita ha lasciato due ricordi, uno gloriosissimo, l'altro da vergognarsi e basta.
Comincio dal primo.
Un'edizione ferocissima, piazza gremita, gioco assassino, a un certo punto uno tira un calcio impossibile al pallone che s'impenna e va in aria, su, su, a campanile, più alto del monte Serrasanta e poi ricade verso noi, in attesa, là in basso, sentinelle dell'atterraggio d'una stella che contiene un desiderio.
Non so cosa mi prese, ma capii che sarebbe stato mio.
Prenderlo con le mani no, perché non avevo il fisico per tentare la vasca, calciarlo di piede mi sapeva da vigliacco, così feci un passo in avanti piegai la schiena e - Dio se ci sei di questo ancora ti ringrazio -, colpii il pallone di tacco, elegante, che se prendo un mese di ferie per riprovarci non ci riesco a rifarlo.
L'olè corale che mi beccai, ogni tanto me lo riguardo e me lo risento, più di vent'anni dopo, perché nell'esistenza di un bipede a pollici opponibili è uno di quegli attimi che fanno la differenza.
Eppoi l'addio. Prima metà degli Anni '90.
Non vivo più a Gualdo, ma per la partita di mezzanotte chiedo recuperi, invento malattie, brigo, salto Gran Premi, in sintesi faccio di tutto per non mancare, perché è uno dei simboli della mia folle giovinezza che sta scappando. Okay, rigioco. Non lo so ma lo so: è la mia ultima presenza.
Tra le mille facce della gente, incontro gli occhi di una mia parente che mi guarda e scuote la testa dandomi elegantemente del deficiente, e poi, verso la fine, il chioppo.
Ormai vicino alla quarantina d'anni, tento una forbice, l'unico gesto atletico calcistico che non m'è mai riuscito in vita mia.
Il pallone lo manco, l'appuntamento col ridicolo no: perdo l'equilibrio a mezza altezza e ricasco come corpo morto cade, schiantandomi sui sampietrini, proprio sopra i carboni della Bastola bruciata.
Annerito, ferito, coi dolori, mi viene da ridere e ed è così, ridendo di tutta la faccenda e ridendo pure di me stesso, che esco di scena.
Nello stesso modo in cui, quella magica notte, tutto era cominciato.
Poi, mentendo, da lì in poi e per il resto della mia vita, fingo di diventare una persona seria, mentre la partita a sua volta smette d'esistere.
Odiata, circoscritta, sconsigliata, invisa, condannata, estirpata e vaporizzata.
Ma da me e tanti, tantissimi altri mascalzoni tadini, per sempre amorevolmente ricercata, segretamente pensata e pungentemente rimpianta.