Ode alla tagliatella

Scritto da Giampiero Tasso. Postato in Avventure a Strimbalzo

E' semplicemente una meraviglia seguire i preparativi della grande cena al Tartufo.
Se ti vuoi emozionare, in una atmosfera di altri tempi, basta seguire, appena un po', il lavorio che gli strimbalzani mettono in atto.
Le donne preparano le tagliatelle che si sposeranno con il tubero.
In cinque, ognuna nella sua postazione e nella stessa cucina, danno vita all'eleganza della pasta fatta in casa, accompagnano la preparazione a commenti, suggerimenti, richieste di consigli, racconti ed aneddoti.

Ecco, le tagliatelle.
Sono qualcosa di magico ed irripetibile, sapienza ed arte della massaia, celebrazione del fare femminile e del gusto del genere umano, incoronazione della genialità che unisce elementi semplici, per ottenere la nobiltà assoluta per il palato.
Sono scuola di pensiero e di scelte di elaborazione, sinceramente parlando, distinzione di modi di cucinare ed intendere il piacere del cibarsi e soddisfarsi, non del semplice mangiare o ingozzarsi.

Scuole di pensiero si sono confrontate per tempo immemore quassù a Strimbalzo, discutendo uomini e donne, ognuno, bontà loro, nelle stanze che frequentavano, sullo spessore della sfoglia, sulla lunghezza della tagliatella, sulla dimensione del taglio (mai oltre gli otto millimetri, come sostiene, con ineguagliabile competenza, la Maria "del Chiodo").

Intatta ed immutabile è la ricetta: nessuna aggiunta di acqua, un uovo a testa, farina di solo grano tenero e setacciata alla perfezione, un pizzico di sale, impasto che deve avere la perfetta consistenza e malleabilità per la stesa con il mattarello, che noi chiamiamo "rasagnolo" (in legno di castagno stagionato), sfoglia compatta e indiscutibilmente intatta che si lascia riposare prima del taglio.

Pur restando "un dogma" la ricetta, ci sono stati innumerevoli tentativi di cambiamenti.
A cominciare dalle uova, di papera e non di gallina, alla farina, dal taglio con sfoglia fresca e quindi lasciando riposare le tagliatelle stese, fino allo spessore che riguarda sfoglia e taglio.
Certo non si vanno a misurare le tagliatelle nel piatto qui a Strimbalzo, ma puoi stare tranquillo che l'occhio, esperto e severo, ti direbbe in tempo reale, nell'infinitesimo spazio di tempo che intercorre tra l'essere sollevate con cucchiaio e forchetta dal vassoio di portata e depositate delicatamente nel piatto, se sono troppo sottili, se troppo larghe e, soprattutto, chi le ha fatte.

Ecco la tagliatella, qui a Strimbalzo, diventa una sorta di espressione algebrica, tormento matematico ed inno del sapore. Già perchè, dicono (e quando dicono qui discutono per ore), che la lunghezza è inversamente proporzionale al numero dei giri che la forchetta fa per avvolgerla.
Per essere una tagliatella perfetta deve arrotolarsi tutta intorno alla posata, senza che ne scappi fuori un solo pezzettino.
Quella è magia, secondo me, alla faccia della matematica e dell'espressione algebrica o del pensiero geometrico.
E' il frutto della sapienza di una donna di casa.
Punto.

Ecco, mentre scrivo ripercorro il piacere di quella prelibatezza fatta a mano (non si ammette, nemmeno lontanamente, nell'ottica di Strimbalzo, che si possano fare tagliatelle con la macchinetta, di alcun genere), tocco la sfoglia, ne sento la freschezza di quel morbido panno di uova e farina che sembra velluto, ne percepisco l'odore delicato, ne conquisto lentamente il sapore, mi innamoro di quel cibo che a pochi è concesso.

Spero che avrete capito che il Re Tartufo avrebbe finito per sposarsi con la sua Regina Tagliatella, complice una delicata aggiunta di aglio che si offre volontario a cedere il suo gusto nell'olio buono.
Null'altro va aggiunto, nulla va tolto, altrimenti potreste mangiarvele tranquillamente, fatte come volete, in qualunque altra porzione di cielo, di terra o di mare.

Per secondo si era scelto il cartoccio di manzo al tartufo.
Ma quella era una ricetta particolare ed innovativa che lo zio Ulderico aveva imposto, memore di quando lo aveva mangiato durante uno dei suoi viaggi verso la Germania.
Il Parente parla raramente dei suoi viaggi in terra tedesca (sinceramente credo che siano stati complessivamente non più di tre) e quando lo fa resta sempre sul vago, o forse è proprio il piacere del mistero che lo spinge a tacere, perchè ho imparato a notare che ogni volta aggiunge o toglie dei particolari, luoghi e persone, tanto che quei viaggi sembravano interminabili e con mete infinite.
Ma anche Salgari narrava di pirati e di tigri con perfezione certosina, descrizione senza errori di luoghi e costumi ed eppure non si era mai mosso dalla sua scrivania torinese.

Il cartoccio di manzo consisteva in un bel pezzo di fianco, noce o spalla arrotolata, lasciata marinare nel vino rosso per almeno otto ore: pretesi, forte del fatto che ero io ad averci messo i tartufi, che il fino fosse umbro, visto che in quella terra di valli e colline ci ero nato.
Per fare un perfetto cartoccio di manzo la carne va arrotolata, legandoci insieme rosmarino, salvia e alloro, massaggiandola lentamente con sale e qualche bacca di ginepro, la si adagia su un letto di fichi girotti, quelli secchi fatti a ruzzola, e poi si accartoccia nel foglio di alluminio.
L'accortezza è quella di lasciare scoperti solo pochi centimetri di testa e di coda del pezzo di manzo.
I buchi del cartoccio non devono essere nè troppo grandi, nè troppo piccoli, per far colare il liquido in eccesso, ma quanto basta per ridare polposità ai fichi secchi e mantenere tenero il pezzo di carne.
Una volta cotto e pronto si apre il cartoccio e lo si fa innamorare del tubero con abbondante spolveratura di grana di tartufo.
Una sorta di guerra tra il calore del manzo e la fragranza del tartufo, facendo in modo che non si fossero nè vincitori e nè vinti.

Lo zio che proponeva la ricetta decantava il gusto di quella carne, tenera da sciogliersi in bocca, accompagnata dai bocconcini di fichi che davano quell'armonia di dolce al manzo.
L'aggiunta del tartufo, diceva nella fase di studio della ricetta, può solamente impreziosire e dilatare il piacere di mangiare. In effetti, essendo insuperabile il manzo, essendo insuperabili i fichi "rinvenuti" con la cottura, insuperabile il tartufo.... poteva solo uscire fuori un piatto... "moltamente" insuperabile.

Avreste dovuto vederlo mentre spiegava la ricetta da fare all'Olga "de Santippe" ed Alba "de Ciuffetta", le due donne addette alla preparazione del piatto, e a Neris "del Filone" e sua figlio Balduccio che si sarebbero occupati del forno.

Già perchè a Strimbalzo non hanno mica un fornetto alla leggera.
E' un bel forno, grande e capiente alimentato a legna da sotto che scalda tutta la pietra refrattaria, con il suo termostato da tenere sotto controllo per non far bruciare nulla.
Lo zio Ulderico l'aveva visto ad una fiera agricola un paio di anni prima e se lo era fatto portare a Strimbalzo. Volete sapere come era finita? Che tutti prendevano appuntamento per venirci a cucinare, piazza, arrosti, dolci e per una sorta di ringraziamento dell'ospitalità ricevuta, chiedevano al parente se avesse da cucinare qualcosa, tanto il forno era caldo....

Lo zio Ulderico sembrava preparare la prima di un'opera lirica.
Dettava i tempi, controllava la consistenza della carne, spiegava come doveva essere perfetta l'esecuzione, la disposizione dei fichi, il numero delle bacche di ginepro, la quantità esatta di pepe e sale, la freschezza ed il profumo del rosmarino.
Insomma gli mancava la bacchetta da direttore d'orchesta e poi sarebbe entrato persino il coro dell'Aida.

Si fece il conto dei commensali, si stabilì quanto essi potessero mangiare e si passò al piano operativo.
Ovviamente contorno di patate al forno.
Mancano all'appello gli antipasti (il Parente li chiama "antipastici" e credetemi combatto da anni per fargli capire che è sbagliato il termine, ma lui insiste e non demorde, credo che mi prenda generosamente per il culo con il suo essere duro di comprendonio, ma sono consapevole che non saprò mai, da lui, la verità).

La Elide "de Vociolina" propone: "tagliata" a coltello affilato di salumi e formaggi: si va dal salame al capocollo o coppa (noi a Strimbalzo lo si chiama "capocollo", come una persona inconcludente e pasticciona, capoccione e credulone, voi giù al nord la chiamate coppa con la "o" chiusa, ma stessa roba è) salsicce secche, lombetto di maiale, bresaola all'aceto balsamico (occhio che dicono sia afrodisiaca) e formaggi di mucca e pecora.
Una robetta leggera, per prepararsi lo stomaco.

Ah, dimenticavo: in genere i salumi li si taglia con la affettatrice, ma come avrete notato ho detto "coltello affilato".
Si tagliano tutti a mano e si va di coltello in modo generoso e da perito (adesso non pretenderete che vi dia anche la spiegazione esatta dei motivi che esaltano il sapore della carne stagionata nel taglio a mano o meccanico).

E in fondo il dolce, un classico tiramisù.

Vi chiederete perchè non affondo descrizione e poesia sul tiramisù.
Semplice sono già sazio da quello che ho prima descritto: le cose sono due: o smetto di scrivere, digerendo e riproponendomi di finire domani, oppure tralascio descrizioni e sapori.
Visto che mi sono già ingrassato un chilo, solo a mettere su carta la descrizione, e siccome sono io che scrivo e voi che leggete.... vada per la mia personale decisione di essere secco e sbrigativo con il carrello dei dolci.

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