La leggenda di Rolando Pinacoli
Ricordo il buio dell'atrio del comune quando vidi la sua sagoma. M'avevano detto che stava male. Senza appello. Aggrappato a un bastone aderente a una gamba, quasi a sostituirla, i lineamenti sofferenti, le spalle storte, l'anima dritta mai vinta. Non ne ero sicuro ma doveva essere lui. Non ci parlavamo molto da dieci anni, come fanno due stupidi. Presi fiato e il digiuno finì. «Rolando, sta' pronto ché ti vengo a trovare presto». «Domani, alle cinque e mezzo» - rispose secco.
Si girò e se ne andò.
Per me non era un uomo malato, no, ormai era la materializzazione, la transustansazione d'una vecchia favola conficcata nelle mie e nelle sue ossa, una storia alla quale dovevo tanto, che amavo e avrei sempre amato.
Già, la mia personalissima Isola del Tesoro di Stevenson. Una iniziazione avventurosa. In cui io ero il piccolo Jim, il dottor Ferdinando Di Benedetto era il Capitano e Rolando Pinacoli, Long John Silver. Il Pirata roco, fascinoso e zoppicante che faceva a meno di una gamba e dando calore metteva paura. Un po' buono, un po' cattivo. Un lampo strano negli occhi e l'oceano addosso. Uno che era tanto. A volte troppo. Di sicuro abbastanza per cercare quel tesoro cui anelavamo tutti e tre. Niente a che vedere con un forziere d'oro e monili, no, ma qualcosa di simile all'occasione giusta per cambiare tante cose, a Gualdo.
Per quello non l'ho mai visto malato, in fondo. Gli ultimi giorni anche fisicamente s'era trasformato in Long John Silver. Tutto qua.
Nella penombra era uguale. La trama dell'Isola del Tesoro diceva che un giorno il Pirata se ne sarebbe andato, scomparso per sempre, inghiottito dal vento del nulla, eppure mi sarebbe restato addosso. Vitale, aleggiante, niente a che vedere con l'oleografia seppiatamente ingessata del ricordo, ma qualcosa di simile a una puntura strana che ti mette addosso la voglia d'abbracciarlo.
Per quello, sinceramente, non mi frega niente che se ne sia andato da dieci anni. Per me lui è via da dieci minuti e non saranno mai undici.
Interno sera, estate 1989, Palazzo Ceccoli, salotto di casa del mio amico Fabrizio Silvestrini. Siamo io, Fabrizio e Rolando.
«Sicché sei andato via di casa - mi fa lui - Vivi da solo, ora. Non hai una lira. Sei borderline. Uno alla deriva. Ebbene, io ti dico - e pronunciando queste parole dà su alla voce, s'alza dal divano, apre le braccia e guarda fuori dalla finestra con gli occhi vitrei aventi il dono della visione, come uno sciamano Sioux - io ti dico che grandi cose stanno per accadere. Stammi vicino, perché ti darò un'opportunità. Mi danno per finito, ma presto tutto cambierà. Io, te, Gualdo. Cambiermo questo posto e saremo insieme. Cambieremo anche noi. Diventerò un giorno il sindaco di Gualdo Tadino, tu il mio segretario, io sarò ricordato per sempre e un piatto di pasta ce l'avrai».
A quegli strilli, seguì un silenzio agghiacciante e il cane di Fabrizio si mise ad abbaiare spaventato. Be', aveva ragione Bobi, il cane, perché quella non era una frase, ma una profezia.
A metà 1990 Rolando Pinacoli contro tutto e tutti, sconvolgendo logica, pronostici, politica, sorte e tendenze, divenne sindaco di Gualdo Tadino. Sceso esausto dal palco del comizio di festeggiamento mi prese da una parte e disse: «Si comincia da domani. Sei assunto. Perché? Perché non ci siamo mai abbandonati, perché sei ex democristiano, piccolo, cattivo e mercenario nato. Il fatto che un comunista capopopolo come me si fidi di uno come te, sarà la prova della mia apertura e della mia grandezza. E sappi che ti licenzierò spesso». Sì vbe.Quattro anni insieme. Okay, poi ho fatto anche altro, ma per me è stato il periodo più bello e penso anche per lui. La perdita dell'innocenza senza acquisire mai colpevolezza. Cavolo, a parte che mi voleva bene, ma tanto bene, il fatto è che era simpatico. Nessuno mi ha mai fatto ridere come lui. Non riesco né forse sono mai riuscito a vedere in lui il politico, la personalità istituzionale, l'uomo di potere, perché in privato non ci teneva affatto a sembrarlo. E forse neanche in pubblico.
Gualdo nel 1990 era diversa da adesso, molto.
Il Comune era un posto ancora alieno al gualdese. Le porte e le finestre le aveva rispalancate Di Benedetto, ma solo Rolando riaprì i saloni alla gente. Parlava con tutti. Li ascoltava. Era empatico. A volte risolveva i problemi, altre ci metteva una pezza, ma indifferente mai.
Godeva a ricevere subito i poveretti e a far fare un po' d'anticamera ai signori della Gualdo che fu. Quando gli dissi che avevo fatto aspettare mezz'ora Giovanni Depretis, all’epoca presidente della Banca dell’Etruria e del Lazio, facendogli passare avanti uno scopino, mi baciò una guancia e me ne pentii anche, perché aveva i baffi che piccavano.
Eppoi era creativo. Una, due giunte a settimana, mitragliate d'atti, ordinanze, comunicati, prese di posizioni, interventi televisivi, cartuccere di mutui, consigli comunali a go-go, opere pubbliche, acquisizioni, finanziamenti, si viveva a cielo aperto, senza patti di stabilità e lui era semplicemente fantastico, mediatico, appariscente ma anche sostanziale, caldo e vero. Certo, pure tracimante, egoriferito e fluviale, ma solo i mediocri non cadono nel vizio d'esserlo.
Capitava che staccassi alle tre del pomeriggio e stanco mi pigiamassi a casa. Tempo mezz'ora suonava il campanello. Chi è? «Rolando». Ma que voe? «Col sindaco oggi hai finito, sono qui come amico». Daje...
Non aveva pace. A suo modo era un italianissimo e gualdesissimo genio. Una volta andammo con le maestre in Emilia Romagna, a visitare i locali asili, modello mondiale di didattica virtù. Verso Forlì divenne paonazzo: «Tiocaro, me so scordato il regalo in ceramica per chi ce ospita...» E mo'? Ci pensò. Confabulò con l'autista di Lepri e mi disse di stare tranquillo. All'arrivo, abbracciò la delegazione e disse platealmente al conduttore: «Vai a prendere il bellissimo omaggio in ceramica che ho riposto nel bagagliaio». Il tipo andò, salvo tornare un minuto dopo con la faccia finto-sconsolata: «Sindaco, mi scusi, l'omaggio s'è rotto nel viaggio, sono desolato...». E Rolando: «Come è possibile? Che figura mi fate fare? Che cosa spiacevole...». «Massù - fece il più autorevole dei nostri padroni di casa - sindaco, non s'arrabbi, la sua presenza qui è il nostro miglior regalo!» Mentre era a braccetto con questo, Rolando si voltò e mi strizzò l'occhio. Bastardo, ce l'aveva fatta.
Come fai a non amarlo, uno così? Si sentiva bello e tra l'altro lo era.
Tra me e lui c'erano accordi precisi. Quando arrivava una strafiga forestiera, a lui dovevo dargli del lei, trattarlo con untuoso e impaurito riguardo e guardarlo - lo cito testualmente - “come Starace contemplava estasiato il Duce nella sala del mappamondo”. Okay. Di rimando, la malcapitata restava colpita già dai primi secondi. “Quelli determinanti” - puntualizzava Rolando, sempre prodigo a insegnare tecniche di seduzione. Roba inservibile, sia chiaro. Perché piaceva alle donne mica perché ci sapeva fare, no, no, piaceva perché paraculo com'era bucava corazze emotive muliebri in modo sostanzialmente automatico.
Una sera si mise in testa d'insegnarmi come abbordare.
Mah, sentiamo. «Di solito le donne girano che sono due o sono tre, mi segui?» Eh. Allora? «Be’, te che fai? Ci provi con una». E fin qui ci siamo. «Sì, ma adesso viene il bello. Non fumare mai la più bella. Ignorala». Cominciamo bene. «Provaci sempre con la più brutta, ché si sentirà lusingata e praticamente obbligata a cederti». Sci, certo. Ciao, va. «No, aspetta, aspetta. E poi t'insegno come baciarla. Il momento più delicato. Ti metti col volto parallelo a lei e le dici: “Dammi un bacetto su una guancia”». Fino a lì ci arrivo pure co' zia, Rola'. «Mbe no, perché mo viene il colpo decisivo: quando questa te sta per bacia' la guancia, tu rotei il volto de trenta gradi e la baci sulla bocca. Fatto. Dopo nse salva. Dimme grazie, almeno».
Voleva sapere tutto. Ti vedeva a parlare con una e lui: «Che ci hai fatto? Te ce sta? Con chi ti riproduci? Io debbo sapere. Tutto. Ne va del nostro rapporto di fiducia, su confidati, io sono un padre confessore, un uomo buono, voglio gioirne con te». E io zitto. Così lui s'inferociva, me sfiniva. Voleva la verità. Alla fine, non ne potevo più de sta manfrina e una volta, all'ennesimo interrogatorio, gli dissi: «Mbe' sì, stavolta ho fatto quello che dovevo». Mi guardò sconvolto: «Ma come, hai colpito? Cioè, no, dico, questa, pur vedendo me s'è concessa a te? Mica doveva, per carità, so' serio, io, un omo de famija, però a quel punto doveva rinuncia' a tutto... com'è possibile che na donna preferisce l'ovo oggi alla gallina mae?! Basta, non vojo sape' più niente, m'avvilisci, va' via, via, via, sei licenziato».
Ecco, per i motivi più strani, me licenziava spesso. Una volta però ebbe ragione. Antefatto. C'era un accordo in codice tra me e lui: se verso le dieci di mattina telefonava e diceva «Ogge so' forza sette», voleva dire che la sera prima aveva straviziato e non sarebbe venuto a lavoro.
Bene, quello era il giorno dell'attesa e prestigiosa visita ufficiale del senatore Venanzo Nocchi da Terni e Rolando mi chiamò dicendo: «Ehm, so' forza sette, pensece tu. Me raccomando». Credevo di poter gestire la cosa ma sbagliavo, perché finii travolto dagli eventi. Tanto per cominciare, l'augusto senatore, un quarto d'ora dopo arrivato, si beccò una multa dai vigili urbani di Gualdo e quello era solo l'inizio d'una giornata infausta.
Tenuto il discorso, nel quale Nocchi si complimentava per lo spirito affabile e collaborativo dei gualdesi, cominciò una zuffa inverosimile per giocarsi chi lo intervistava per primo tra Giannetto Teodori di Gualdo Tv23 e Antonio Campioni di Rete7, con Giannetto che girava per la sala del Consiglio brandendo Tonino come una bambola, coi piedini roteanti nell'aria e dicendogli. «'Ntò, te puso solo si vae via».
Driiin, suona il telefono. È Rolando: «Allora, tutto a posto? Stamo a fa' bella figura?». Be' dipende, dai. Sento fare pic pic sulla spalla e vedo il volto atterrito dell'autista personale del ternano padre della Patria che mi dice: «Guardi, in sala il rissone è finito, ma adesso la novità è che i vostri vigili hanno fatto rimozione dell'auto del senatore col carro attrezzi».
Andai a casa sfiduciato, quel pomeriggio. Verso le sei, pigiamato, udii il campanello e aprii la porta. Nessuno. Guardai l'uscio e con lo scotch c'era appiccicato un biglietto con su scritto: “Sei licenziato - firmato Rolando Pinacoli”. Nel suo gergo, voleva dire che m'aveva già perdonato.
Boh, adesso andrei avanti, potrei, pure per venti pagine, ma anche no.
Posso dire che Rolando si fidava talmente tanto, che m'aveva insegnato a fare la sua firma, uguale uguale, ma talmente tanto uguale che a volte la sua non gli piaceva. La firma elettronica ancora non esisteva e per le urgenze se lui era a Perugia dovevo firmare io, di nascosto, a comando.
Quando il comune comprò il nuovo sito per il Centro per Anziani, Rolando aveva le buone e quella sera mi disse: «Daje, la delibera d'acquisto firmela tu: oh, quanno cazzo t'arcapita più de compra' Villa Luzi?». Firmai. Chiaro, falso ideologico. Roba da arresto. Ma tanto mo c'è la prescrizione.
Penso sia l'unico reato che Rolando abbia compiuto nell'esercizio delle sue funzioni e per burla, perché per me dal primo all'ultimo momento è stato e restato bianco, pulito e onesto.
E comunque una volta fui arrestato sul serio e lui mi tirò fuori. Ad Atlantic City, nel 1992, al Caesar, il casinò più bello e ricco del New Jersey. Entrammo e lui disse a me e a Pippi Sabbatini: «Il fatto che giro con gente come voi in un posto come questo, è indice del mio momentaneo declino. Avrei dovuto presentarmi con uno come Pino Travaglia per fare la mia bella figura, comunque pazienza».
Insomma, entriamo e in un quarto d'ora alla roulette perdo 500 dollari. Fine dei giochi. Allora con Pippi bighelloniamo per i tavoli e ci mettiamo a scattare fotografie. L'avessimo mai fatto. Se c'è una cosa che non devi fare in un casinò e men che meno in un casinò del New Jersey, è fotografare gli avventori. È considerato ben peggio di un reato federale. Tempo due secondi e ci acciuffano. Arrestati. Fu lui a perorare il rilascio con gli inferociti security. Il giorno dopo sotto il ponte di Brooklyn salvai Emiliano, il figlio di Rolando, da una banda di motociclisti tipo Hell's Angels, perché il boy s'era messo incautamente a toccare una Harley parcheggiata e questi s'erano incazzati mentre Rullino, sto birbo, s'era defilato per gioca' il ruolo di quello che in caso, se c'è bisogno, arriva alla fine.
Ancora ce ridemo, co' Emiliano.
Dai, a che serve fare l'elenco di opere pubbliche, iniziative, intuizioni, a volte giuste altre no, o di meriti acquisiti col terremoto, la cui gestione del dopo lo esaltò come amministratore e ricostruttore di Gualdo?
A me in fondo di queste cose interiormente non importa più da un pezzo.
Rolando dentro di me è altra roba. I bilanci ufficiali a partita doppia e le considerazioni politiche e istituzionali ho il dovere e il piacere di lasciarle ad altri.Voglio solo tornare alle righe con cui ho cominciato questa chiacchierata disordinata, fatta così come m'è venuta.
Voglio tornare all'ultimo Rolando, a Long John Silver.
Ci andai, a trovarlo, quella sera alle cinque e mezza. E poi pure la settimana dopo e quella dopo ancora. Portando una bottiglia di rosso, anche se a lui non andava più. Parlavamo, punto. Come se tanti anni non fossero passati.
Dopo la sua prima legislatura me ne ero andato, perché avevo voglia di cambiare aria e a lui la cosa era un po' piaciuta e un po' no.
Alla fine ritrovarci fu come cauterizzare una ferita che dava fastidio a entrambi. Una cosa bella, molto dolce.
L'ultima sera fece portare un tavolo dal piano superiore e con il fratello Alessandro Pinacoli e Carlisio Gubbini ci gettammo in un'inter-minabile partita di tressette. Rolando ed io insieme. Come sempre.
Ovvio, perdemmo e lui disse: «Giochi da cane. Ma, malgrado te, è stata una bella serata».
Se qualcuno ora si sta chiedendo come cavolo faccio a chiudere sto articolo, be, si metta l'anima in pace perché il finale lo ha scritto dieci anni fa proprio Rolando Pinacoli, di suo pugno, a tutt'oggi è inedito e come tutte le cose che ha fatto, a modo suo gli è venuto alla grande.
Sentite come andò. Insomma, finisce sta partita di tressette e lui mi fa:
«So che non hai mai visto il Museo dell'Emigrazione. L'hai fatto per dispetto? Indifferenza? Insensibilità? Boh, chissà. Ma puoi sempre riparare. Sai che facciamo, domani? Lo visitiamo insieme, io e te, come ai vecchi tempi. Dai, domattina, sabato, alle dieci in piazza. Ci sarò. T'aspetto, mi raccomando: puntuale». Non era fisicamente possibile che potesse farcela. Mi limitai a sorridere. Okay. Sapevo che nessun essere umano in quelle condizioni avrebbe resistito a una mattinata dell'inverno gualdese, uscendo da casa. Semplicemente, lo salutai e me ne andai.
Il giorno dopo m'alzai tardi, ritrovandomi a mezzogiorno in una Piazza Martiri spazzata da un vento incollerito, come in un finale spaghetti western. In mezzo alla piazza, da solo, c'era lui. Aggrappato al bastone. Long John Silver ce l'aveva fatta. «È più de n'ora che t'aspetto, perché non sei arrivato prima?» Non sapevo che dire. E lui: «Sono stanco, torno a casa, ma tu adesso vacce a vede' sto museo, ce tengo. È una cosa che mi fa contento». Sì, sì, vado subito. Vabè, allora ciao, Rolando.
Vento, tanto vento. Mi sa che è l'ultima volta che lo vedo. Accelero il passo. Ho voglia di piangere.
Mi chiama. Mi giro. Mi guarda da lontano, sornione, paraculo come non mai e mi fa: «Dimenticavo. Stronzo, sei licenziato».