Renato Sellani, ritratto in jazz
"Buongiorno maestro”. Il viso, scavato dalle tante rughe che ne hanno scritto la vita, deve sollevarsi per guardarci. Il maestro è curvo, sotto il peso dei quasi novanta anni, ma l'espressione è quella di chi non ha perso un grammo della lucidità che gli ha permesso di produrre milioni di note. Tra le più belle.
“Andiamo dentro per l'intervista. C'è una bella saletta con un divano. Voglio raccontarvi della mia vita e della mia Gualdo”.
La saletta della Bottega del Vino sono pochi metri quadrati. Un tavolo con seggiole, dove ci sediamo noi. Un divano dove si siede lui, Renato Sellani. Leggenda vivente del jazz.
Il grande artista è illuminato dalla luce che proviene da una piccola finestra che dà su Corso Vannucci, il cuore di Perugia.
Il maestro inizia a parlare. Da solo. Non aspetta la domanda. La voce è ferma, decisa, musicale. Da questa distanza si capisce che quelle rughe non glie le ha disegnate solo la vita. Glie le ha disegnate anche la musica.
“Gualdo Tadino? E' la mia vita e la mia spensieratezza. Quando sei giovane contano solo queste due cose. Non c'è nulla di altro. Non hai pensieri, i ricordi sono solo belli. Gualdo sono i miei Natali, le mie Pasque, ma non solo. Mio padre, gualdese, ci portava spesso a trovare i nonni. Avevano un'osteria lungo il viale che dalla stazione porta al centro”.
Ci racconta di Renato Sellani?
Mio padre per lavoro si trasferì da Gualdoa a Senigallia e io nacqui lì. Ero esile, i medici dicevano che dovevo irrobustirmi. Allora mi mandarono a Venezia, per frequentare il collegio navale. Finita la guerra andai a Roma all'università. Ma facevo finta”.
Faceva finta?
“Sì, perché in verità seguivo la musica. Mi interessava molto di più. Andavo ad ascoltare i pianisti di quell'epoca, come Armando Trovajoli e Bruno Martino. Iniziai a suonare con i primi gruppi e dopo otto anni a Roma, Franco Cerri (il chitarrista più autorevole del jazz italiano, ndr) mi sentì suonare e mi portò a Milano. Sono ancora lì, ma lo sa che non mi piace Milano? Non è la città giusta per il mio carattere. Non c'è tranquillità e ormai è un agglomerato di persone che parlano tutte le lingue del mondo tranne l'italiano”.
Da quanti anni viene a Umbria Jazz?
“Dall'inizio! Su 41 edizioni ne ho fatte 34. E non solo come musicista. Ho presentato anche concerti. Del resto la mia vita è così: ho fatto di tutto”.
Lo sappiamo. Sappiamo anche che è un grande appassionato di sport e si è inventato una trasmissione poi divenuta un’istituzione: la Domenica Sportiva. Lui e Maurizio Barendson ebbero l'idea e in Rai la portarono avanti. Sorride il maestro, perché abbiamo toccato il suo punto debole, la sua passione più forte dopo la musica. Anzi, da come ne parla sembra sia sullo stesso piano.
“Lo sport per me è una droga. Letteralmente mi drogo di sport. Ero molto amico di Sandro Ciotti e Bruno Pizzul, ma non seguo solo il calcio. Gli sport mi piacciono tutti, soprattutto quelli individuali. Adoro tutto ciò che è agonismo. Ho tolto tanto alla musica per seguire lo sport, ma sono pigro e a sedermi ore al pianoforte mi viene l'angoscia. Perciò dopo un po’ mi alzo, scrivo delle cose, ne leggo altre e poi vado a vedere lo sport in tv, o, se posso, vado allo stadio. In qualsiasi parte d'Italia mi trovi”.
Inutile chiedere per quale squadra fa il tifo.
“Guardi, ho frequentato tutti gli stadi d'Italia e ho imparato una cosa: il tifoso non è mai un amante del calcio. Il tifoso ama undici giocatori. Invece, per amare il calcio, bisogna amarne ventidue”.
Renato Sellani ha fatto anche l'attore teatrale. E' nella musica, però, che è leggenda. Per l'immenso talento, per il suo essere originale, per i nomi con cui ha suonato e per le tante storie che ha da raccontare.
Piace molto parlare a Sellani e a noi piace la lucidità di chi ricorda ogni particolare della sua lunga e fantastica vita.
La leggenda sta nell'aver insegnato a cantare “Volare” ad Ella Fitzgerald. Ma è vero?
“Certo che è vero. Bussola anno 1963. Lei fu incuriosita da questo brano, disse che era molto bello e glielo trascrissi. Si portò via tutto e lo incise”.
La leggenda sta nell'essere amico di Mina.
“Sì, anche se in questo periodo fa la nonna e quindi dedica poco tempo alla musica. Se la vedrei bene ad Umbria Jazz? La vedrei bene in tutti i posti del mondo, solamente che ormai lei ha deciso così ed è giusto che sia così. La migliore voce italiana? Non vedo ancora chi possa superarla. Una volta mi disse che non sarebbe mai andata negli Stati Uniti a cantare. Le chiesi perché e lei rispose 'Ci sono mille e mille cantanti più brave di me!' Devo dire che è vero. Specialmente le cantanti di colore sono bravissime”.
Lo strumento voce può essere unico e restarci. Un pianoforte è uguale per tutti, anche se poi conta il tocco.
“E' vero, ma guardi che oggi si è abbassato il livello di chi riesce a guardare in profondità la musica. Si rimane spesso in superficie. E' l'andamento tecnologico del mondo. Oggi va più il mezzo elettronico rispetto a quello umano. Il pianoforte è un mezzo umano e io cerco di eliminare qualsiasi interferenza 'elettronica' tra me e il pubblico. La nostra non è una musica da stadio, ma a volte si suona all'aperto e bisogna amplificare. Io cerco di evitarlo, perché mi distraggo. Al chiuso siamo più concentrati. Io e il suono”.
Lei è considerato il padre del jazz italiano. Quale potrebbe essere il suoi erede, pensando ai vari Rea e Bollani?
“Casomai sono il nonno, non il padre (ride il maestro). Diciamo che sono epoche diverse. Io ho suonato nell'epoca dei grandi nomi come Charlie Parker e altri americani. Loro sono entrati dopo, ereditando quanto fatto da noi e mescolando la nostra esperienza con la loro abilità musicale”.
Si dice che il jazz sia musica tecnica, si fanno spesso paragoni col blues dove il cuore è importante. Quanto conta il cuore nel jazz?
“E' sbagliato dire che nel blues c'è il cuore e nel jazz no. Certo, se uno guarda com'è nato il blues, si rende conto che è un inno al dolore. E' nato in un periodo di sofferenza, ma con l'integrazione razziale questo è mitigato. Il blues è diventato più 'bianco' e anche noi italiani abbiamo dato tanto, nonostante io insista a dire che l'Italia è un paese non musicale”.
Non musicale l'Italia?
“Ecco, lo dico da sempre e tutti mi danno addosso. Anche lei si sta scandalizzando. Tutti mi tirano fuori Puccini, Verdi. Ok, ma le primule e in generale i fiori bellissimi non riempiono le aiuole. Se ne vede uno ogni tanto. La massa, mi dispiace, ma non è musicale. Oggi sento solo e soltanto ritmi in battere (inizia a tenere un tempo con le mani). Non c'è il levare. Non c'è più lo swing, non c'è mai stato da noi. Noi viviamo di importazione musicale. Dalla Spagna, dalla Grecia, hanno influenzato tante regioni d'Italia. Non c'è un folclore tutto italiano”.
La vedremo a Gualdo Tadino?
“A dir la verità l'ho sempre desiderato. Speravo che qualche sindaco si ricordasse di questa 'sellaniana' stirpe. Siccome sono ancora vivo… non dispero”.
Il maestro tra due ore suona qui, dove è protagonista di piccoli spettacoli giornalieri insieme a un altro grande del jazz come Massimo Moriconi. Suona al chiuso, come piace a lui. A questa età può decidere ciò che vuole, senza subire management incalzanti o pressioni discografiche particolari. Forse uno come lui non li ha mai subìti. Uno come lui non può essere pilotato dalla musica, perché lui stesso è musica da ottantotto anni.
Ci alziamo e arriva un sorriso e una frase: “Forza Gualdo, spero che ci sia una squadra degna della città”.
Lo avevamo visto, in un'altra intervista. “Guardate che le mie origini sono di Gualdo Tadino!” e nel dirlo aveva mosso la mano vicino all'orecchio. Come Luca Toni dopo un gol.
Il tifoso non è uomo che ama il calcio, aveva detto poco prima.
Sicuramente Renato Sellani ama Gualdo Tadino.